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Si sta ormai concludendo una delle estati più calde che si ricordi.

Secondo alcuni studiosi le temperature avrebbero raggiunto i picchi più alti da qualche secolo a questa parte e, come spesso avviene di fronte a delle situazioni considerate emergenziali, l’uomo deve confrontarsi con delle nuove sfide e fare esperienza per il futuro.

Anche se non tutti ne sono a conoscenza, anche il calore, come il freddo d’altra parte, può costituire un rischio per la sicurezza dei lavoratori e la normativa prevede espressamente uno specifico obbligo di valutazione.

Il Testo Unico, in relazione al microclima, prevede una numerosa serie di prescrizioni generali per la gestione della temperatura nei luoghi di lavoro (Titolo II – Allegato IV), nei siti industriali e non industriali,  ma anche obblighi specifici relativi alla valutazione del rischio derivante da agenti fisici quali rumore, vibrazioni, radiazioni, ed appunto microclima.

È previsto, per esempio, che i lavori continuativi non possano essere svolti in locali chiusi qualora gli ambienti di lavoro non siano ben difesi contro gli agenti atmosferici, con isolamento termico ed acustico; qualora non vi siano aperture sufficienti per il ricambio dell’aria o non siano asciutti e difesi dall’umidità.

Insomma, il D.Lgs. 81/08 impone che per tutta la durata del lavoro la temperatura dell’ambiente interno sia adeguata all’organismo umano e tenga conto dell’influenza che sulla temperatura ha il grado di umidità ed il movimento dell’aria: ciò al fine di consentire che lo svolgimento della prestazione lavorativa in ambienti chiusi non diventi pericoloso per la salute a causa di agenti fisici come la temperatura.

Di recente, però, l’improvviso aumento delle temperature, che hanno raggiunto picchi fuori dal comune, ha imposto una più attenta rivisitazione del rischio da microclima anche in relazione ai lavori che vengono svolti all’aperto.

Tutti gli operatori del settore, i datori di lavoro e la stessa INAIL, hanno infatti dovuto fronteggiare, ancora una volta, un’estate nella quale esporsi al sole, in momenti in cui la temperatura raggiungeva o superava i 40°, diventava un rischio inaccettabile per la salute.

La situazione è peraltro divenuta emergenziale dopo alcuni tragici eventi infortunistici incorsi a lavoratori che hanno perso la vita quale diretta conseguenza del colpo di calore (magari aggravatosi a causa di patologie pregresse), o quale conseguenza indiretta della esposizione ad elevate temperature (per esempio un malore dovuto al caldo verificatosi in particolari momenti dell’attività – ci si immagini un lavoratore che a causa del caldo si sente male mentre sta salendo una scala a pioli).

Come riportato da numerosi quotidiani ed in particolare da La Repubblica, in un articolo comparso on line in data 19 luglio, nella sola settimane centrale del mese di luglio vi sono stati almeno 5 decessi di persone che si trovavano intente al lavoro, all’aperto e durante i momenti più caldi della giornata.

È per esempio avvenuto in provincia di Ancona che un lavoratore di 75 anni sia morto di infarto mentre manovrava una gru durante uno degli orari più caldi della mattina; un camionista di origine serba è stato trovato morto a bordo del suo camion in una piazzola nelle strade del bresciano; un lavoratore è stato stroncato da infarto mentre si trovava all’interno di un container dove le temperature erano evidentemente troppo alte.

L’ipertemia pare abbia anche colpito anche un lavoratore che si trovava intento a pulire un magazzino e che, all’arrivo dei soccorsi, poi rivelatisi inutili, avesse una temperatura corporea di 43°, così come pare dovuto alla temperatura eccessiva anche l’infortunio occorso a quel lavoratore che, pur giovane (44 anni), è stato colpito da malore mentre si trovava intento a tracciare la segnaletica stradale.

Non è un dunque un caso che l’INAIL, l’INPS e l’INL, proprio a metà del mese di luglio abbiano ribadito, anche con  messaggi congiunti, quanto già affermato nel luglio del 2022, allorchè furono emanate disposizioni per consentire l’accesso alla Cassa Integrazione Ordinaria in tutte quelle giornate in cui la temperatura esterna superava i 35° (o anche con temperature inferiori qualora la temperatura “percepita” li superasse).

È pertanto lecito chiedersi cosa si debba fare per affrontare il rischio da microclima quando si lavora in ambienti esterni e non sia possibile mitigare direttamente la gestione della temperatura (come invece si può fare in locali chiusi attraverso per esempio la climatizzazione dell’ambiente).

In proposito, bisogna partire dalla considerazione che lo stress da calore è un rischio significativo per tutti coloro che svolgono attività lavorative all’aperto, soprattutto quando queste prevedono un intenso lavoro fisico con esposizione diretta alla luce solare e al calore.

In settori come l’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’edilizia civile e stradale, l’estrazione mineraria, i trasporti, la manutenzione e la fornitura di servizi pubblici, la temperatura diventa un fattore determinante che aumenta il rischio di incorrere in infortuni.

L’esposizione diretta alla radiazione solare può infatti compromettere le prestazioni motorio-cognitive fino al punto da incidere direttamente sulla salute del lavoratore.

Negli ambienti outdoor, però, è impossibile attuare modifiche dei parametri fisici ambientali ed è per questo che, laddove la temperatura raggiunga valori pari o superiori ai 35 °, diventano obbligatorie delle misure di mitigazione che vanno ad incidere sull’organizzazione del lavoro.

Per esempio, in alcuni casi è possibile programmare le attività in orari a basso indice di soleggiamento evitando il più possibile le lavorazioni durante le ore di maggior caldo (tra le 12:00 e le 16:00), anticipando l’inizio dell’orario di lavoro alla mattina presto e prolungandolo nelle ore serali.  In altri, si potrebbe evitare l’esposizione diretta alla radiazione solare utilizzando tettoie, anche mobili, che possano permettere di lavorare all’ombra.

In ogni caso, è sempre opportuno informare i lavoratori sui rischi dello stress termico al fine di sollecitare  l’utilizzo costante di acqua e di integratori salini programmando delle pause prolungate in aeree aperte ombreggiate o in zone chiuse più fresche.

Non può infatti escludersi che dove il rischio legato al microclima non sia stato correttamente valutato e correttamente affrontato, con adeguate misure di prevenzione e protezione, il datore di lavoro possa incorrere in responsabilità penali in caso di infortuni sul lavoro la cui eziologia possa essere legata ad un eccessivo stress termico (se mal valutato e/o mal gestito).

Inoltre, già con sentenza n. 6631 del 2015 la Corte di Cassazione sanciva il principio per cui il lavoratore che si rifiuti di effettuare la prestazione in una situazione di caldo o di freddo eccessivo, non soltanto non è sanzionabile da un punto di vista disciplinare, ma conserva il diritto alla piena retribuzione fino a che il datore di lavoro non abbia provveduto a ripristinare delle condizioni di lavoro compatibili con la tipologia di prestazione richiesta.

In conclusione, anche in attesa di verificare come si orienteranno i giudici nel valutare alcuni degli  infortuni verificatisi e per i quali sono state avviate indagini ed accertamenti, non si può che consigliare di rivedere i Documenti di Valutazione dei Rischi, ove occorra prevedendo, specificando ed imponendo tutte le misure di mitigazione del rischio da microclima che la specificità della prestazione lavorativa richieda.

 

AREA LEGALEavv. Federico Lentini

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