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È iniziato da qualche giorno, nell’ambito della campagna europea “Ambienti di lavoro sani e sicuri”, un nuovo progetto condotto su iniziativa dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, dedicato ad una analisi dei cambiamenti che l’era digitale può apportare alla gestione della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro.

La pregevole iniziativa mira a sensibilizzare i datori di lavoro a non tralasciare gli aspetti legati alla sicurezza in un periodo nel quale la digitalizzazione sta di fatto rimodellando gli ambienti di lavoro attraverso l’introduzione dell’intelligenza artificiale, di robot che diventano parte essenziale dei processi lavorativi, di computer portatili e dispositivi che consentono ormai il telelavoro e di tecnologie digitali che modificano anche le più consolidate prassi produttive.

Leggendo sul sito dell’Agenzia europea per la salute e la sicurezza l’intervista rilasciata dal Commissario europeo per il lavoro ed i diritti sociali – Nicolas Schmit – e da altri autorevoli personaggi coinvolti nell’iniziativa, ho molto apprezzato le finalità del progetto e mi sono posto alcuni interrogativi che hanno fatto da propulsori per la presente riflessione.

Alcuni di questi interrogativi hanno trovato una risposta immediata ed anche piuttosto naturale.

Da un punto di vista tecnico, per esempio, non v’è dubbio che l’introduzione di nuovi macchinari e di nuove tecnologie, che modificano i processi produttivi, imponga al datore di lavoro ed al suo RSPP un nuovo sforzo valutativo correlato alla modifica dei rischi, così come non v’è dubbio che debba instaurarsi un nuovo approccio alla formazione e all’addestramento dei lavoratori.

Altri interrogativi, invece, non hanno trovato una risposta, ma solo generato altre domande, sicchè questa mia riflessione è come l’inizio di un peregrinaggio: un peregrinaggio che inizia dal nuovo rapporto tra la tecnologia e l’uomo negli ambienti di lavoro.

Più specificamente, leggendo il materiale informativo della campagna europea, mi ha incuriosito l’analisi della possibilità che un rischio per la salute dei lavoratori possa essere conseguenza, più o meno diretta, della compromissione del fattore antropocentrico negli ambienti di lavoro.

In altri termini, l’incontrollato inserimento della tecnologia nei processi produttivi, l’utilizzo ormai costante del lavoro da remoto, l’introduzione dell’intelligenza artificiale anche ai fini del controllo di produttività, possono essere considerati un fattore diretto di rischio per la salute del lavoratore?

E fino a che punto la persona può essere sostituita dalla macchina? O meglio, fino a quali margini può essere relegato il lavoratore nel processo produttivo senza che ciò determini un rischio per la sua salute?

Senza l’ambizione di fornire risposte, a mio avviso, il ragionamento dovrebbe partire dal concetto stesso di salute per come lo si intende oggi in correlazione con il lavoro e con la tutela che il datore di lavoro deve apprestare nei confronti di ogni singolo lavoratore.

Come ho già avuto modo di scrivere in una Pillola di sicurezza dedicata alla Salute, con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/08 nel nostro ordinamento, il perimetro di tutela del lavoratore si è molto ampliato.

La normativa del 2008 ha infatti recepito la definizione di salute che era stata in precedenza fornita dall’OMS, imponendo ai datori di lavoro un nuovo approccio alla valutazione dei rischi, non più limitato al solo rischio di un danno fisico, ma anche al rischio di un danno psicologico del lavoratore.

Ed invero, se la salute sul lavoro deve intendersi come lo stato di completo benessere psico-fisico, è evidente che l’aspetto psichico non può essere trascurato ed al lavoratore deve essere garantita un’organizzazione del lavoro che non leda la sua integrità psicologica, ad esempio, che non sia una diretta fonte di stress.

Non è un caso che, a partire dal 2008, nei documenti di valutazione dei rischi sia ormai prevista la valutazione dello stress lavoro-correlato.

In questo ambito, uno dei tipici casi analizzati dagli esperti era collegato, ad esempio, alla prestazione di lavoro manuale ripetitiva che, proprio perché ripetuta nel tempo ed al netto di problemi fisici di natura biomeccanica, poteva essere fonte di stress per l’addetto a quella attività.

In tali casi, il datore di lavoro deve intervenire perché il lavoro sia organizzato in modo tale da non esporre per troppo tempo lo stesso lavoratore a quella prestazione ripetitiva, per esempio attraverso la previsione di turni di lavoro ridotti, di turni di lavoro non consecutivi o attraverso una alternanza di più lavoratori.

Che oggi il concetto di salute sul lavoro sia direttamente connesso allo stato di salute psicologica del lavoratore, non v’è dunque alcun dubbio.

Ma proprio da qui nasce l’interrogativo che ha originato la riflessione.

Un lavoratore che perde improvvisamente la sua abituale funzione in azienda per l’avvento di nuove macchine, nuove tecnologie, nuove gestioni algoritmiche, o che perde la propria quotidianità lavorativa in ragione del telelavoro e dello smart working, è sottoposto ad un rischio psicologico connesso all’attività lavorativa?

Attenzione, non intendo mettere in discussione gli enormi ed indiscutibili benefici che la tecnologia porta con sé, né le utilità o i vantaggi connessi a forme di lavoro agili ed effettuate da remoto, ma solo provare a comprendere se, ed eventualmente, in quale misura, queste novità debbano essere valutate come potenziali rischi sul lavoro.

Devo dire, in tutta sincerità, che coloro i quali hanno un approccio pratico alla sicurezza sul lavoro non sentono il bisogno di porsi l’interrogativo e anch’io, prima di leggere l’iniziativa dell’Agenzia Europea, ero piuttosto timido all’idea di affrontare l’argomento.

Tuttavia, penso che la finalità del progetto avviato dall’Agenzia Europea debba essere condiviso e divulgato, perché concordo con l’idea che un cambiamento improvviso del rapporto tra tecnologia e lavoratore possa potenzialmente essere rischioso, soprattutto se non correttamente gestito con momenti di valorizzazione del fattore umano che riportino in equilibrio la situazione.

Proverò a fare un esempio per spiegarmi meglio.

Ho di recente visionato l’applicazione di una forma di intelligenza artificiale che, attraverso alcune telecamere ed il monitoraggio costante dei dipendenti di un Bar riusciva a “valutare” le performance di ciascun lavoratore (cameriere, banconista, cassiere etc) contando il numero di servizi, il numero di caffè fatti e serviti, il numero di ordini presi ed il numero di passi che durante la prestazione lavorativa ciascun lavoratore realizzava.

Al di là della questione giuridica correlata al monitoraggio costante dei propri dipendenti, che non è legittima ma non è l’argomento della mia analisi, mi sono chiesto come debbano sentirsi quei dipendenti a sapere di essere costantemente sottoposti ad un’analisi delle loro performance; come debba sentirsi un banconista del bar che prima era abituato a scambiare due chiacchere con il cliente, magari per farlo sentire a suo agio e, dopo l’avvento di questa applicazione tecnologica, debba subito mettersi a fare qualcos’altro perché sa che l’intelligenza artificiale lo guarda e lo sta valutando; che deve camminare avanti e indietro dal bancone perché il numero dei passi effettuati contribuiscono alla valutazione della sua performance lavorativa.

Ecco allora, è legittimo chiedersi, per esempio in questo caso, se l’innovazione tecnologica possa effettivamente essere una fonte di stress per il lavoratore?

Non sarebbe giusto interrogarsi sulle conseguenze a lungo termine di un tale approccio al lavoro?

Magari il mio giudizio, da orgoglioso siciliano quale sono, risulta inficiato dalle mie abitudini e dalla tipica convivialità che si respira al sud, ma io credo che la fattispecie rientri nella casistica dei rischi sul lavoro e, personalmente, non penso neanche che andrei a prendere il caffè in un bar dove il banconista non mi saluta perché ha fretta di servirmi o di servire gli altri, o non scambia con me due parole (se ne ho voglia) perché deve muoversi avanti e indietro stando attento a quanti km risulteranno al termine della sua giornata lavorativa.

E come ci si dovrebbe approcciare in termini di valutazione dei rischi alla situazione di un operaio che magari ha un’esperienza ventennale sul campo, che era addetto al monitoraggio dei macchinari all’interno del reparto produttivo, che era abituato ad incontrare i suoi colleghi sul posto di lavoro, a cui all’improvviso viene dato un computer e gli viene spiegato che deve stare per tutto il suo turno in una stanza a monitorare i dati perché ormai il sistema di controllo è tutto centralizzato?

Insomma, a mio avviso, se la salute la intendiamo per come la legge ci impone e se la valutazione dei rischi sul lavoro deve abbracciare tutti i rischi, correlati alla singole mansioni ed all’organizzazione in generale, prima o poi il problema lo si dovrà affrontare, perché sono assolutamente d’accordo con il Commissario europeo per il lavoro ed i diritti sociali, Nicolas Schmit, quando nella sua intervista lascia intendere che senza il giusto equilibrio i benefici dell’era digitale rischiano di compromettere l’approccio antropocentrico al lavoro con potenziali conseguenze per la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Ai posteri l’ardua sentenza.

 

AREA LEGALE: avv. Federico Lentini

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